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Interventi giudiziari nei casi di alienazione parentale

La nuova sfida della comunità scientifica consiste nella realizzazione di programmi di intervento psicologico con la famiglia divisa attraverso cui ristrutturare le relazioni affettive interrotte tra genitore rifiutato e figlio. In Italia non esistono trattamenti specifici sull’alienazione parentale. Alla pronuncia del Tribunale segue una delega ai Servizi Sociali territoriali che talvolta mettono in atto degli interventi psicosociali generici e privi di un approccio orientato in senso scientifico.

Per tale motivo, scopo di questo articolo sarà evidenziare alcune criticità degli interventi psicosociali nei casi di alienazione parentale e fornire spunti di riflessione sulla realizzazione di innovativi e sperimentali programmi di intervento.

La Consulenza Tecnica di Ufficio

La Consulenza Tecnica di Ufficio (CTU) è un’attività istruttoria psicoforense che rappresenta la sede appropriata per rilevare le dinamiche di alienazione parentale. Essa è strutturata secondo una serie complessa e articolata di incontri, di osservazioni e di colloqui in cui il consulente del Tribunale incontra a colloquio i genitori insieme, separatamente e insieme al figlio. Attraverso queste attività è possibile verificare o falsificare l’ipotesi di alienazione parentale in cui la conditio sine qua non è il rifiuto immotivato del figlio nei confronti di un genitore dietro induzione e condizionamento dell’altro.

In Italia è molto diffusa la prassi secondo cui il CTU nelle conclusioni della sua relazione tecnica suggerisca-prescriva un “percorso psicologico” (si noti la vera e propria inflazione di questo termine troppo generico, privo di una più definita qualificazione che aiuti l’utente a definirlo ed a comprenderne senso e finalità). Trattasi, il più delle volte, di un sostegno psicologico o di una vera e propria psicoterapia rivolta singolarmente e ad entrambi i genitori. Sostanzialmente il Consulente d’Ufficio intravede come possibile soluzione del conflitto un trattamento psicologico che spesso si traduce in un doppio intervento: sostegno psicologico alla coppia genitoriale e psicoterapia individuale o familiare.

Gli interventi psicologici a carattere sanitario sono un formidabile strumento di tutela del benessere psichico, fisico e sociale messo a disposizione delle persone dalle professioni e dalle scienze psicologiche. Nello specifico la valenza curativa della psicoterapia è stata recentemente ribadita dal Sistema Sanitario Nazionale che ha inteso favorirne l’accesso inserendola nei Livelli Essenziali di Assistenza. Tuttavia, il ricorso alla psicoterapia necessita di peculiari condizioni di impiego che garantiscano gli interessi del paziente, favoriscano l’efficacia dell’intervento e ne limitino gli effetti iatrogeni. Tali condizioni sono fondamentalmente rinvenibili sia a livello deontologico, sia nelle teorie e tecniche di riferimento dei vari orientamenti psicoterapici.

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La decisione del Giudice nei casi di alienazione parentale

Depositata la CTU, il Giudice solitamente recepisce i “consigli” del suo consulente di fiducia suggerendo-prescrivendo il trattamento psicologico proposto nelle conclusioni peritali. Ed è questa la più significativa criticità in tema di interventi psicosociali.
È utile ribadire che il diniego di prescrivere trattamenti sanitari ad un soggetto adulto è sancito a livello costituzionale dall’art. 32 co. 2. La Corte di Cassazione nel 2015 ha evidenziato l’illegittimità dei trattamenti sanitari coatti alla coppia genitoriale per risolvere la controversia giudiziaria: “la prescrizione ai genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale e a un percorso di sostegno alla genitorialità da seguire insieme è lesiva del diritto alla libertà personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l’imposizione, se non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari. Tale prescrizione, pur volendo ritenere che non imponga un vero obbligo a carico delle parti, comunque le condiziona ad effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia confliggendo così con l’art. 32 della Costituzione” (Cassazione Civile I sez. sentenza n. 13506/15).

In tema di trattamenti sanitari (la psicoterapia, sia essa effettuata da un medico o da uno psicologo, rientra a pieno titolo tra essi) le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008, richiamando la Costituzione (artt. 2 e 32), la legislazione sovranazionale (Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, rat. con L n. 145 del 2001; Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, rat. con L. n. 176 del 1991; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata nei 17 dicembre 2000), la legislazione nazionale (legge 21 ottobre 2005 n. 219; legge 23 dicembre 1978 numero 833, istituzione del servizio sanitario nazionale) il codice di deontologia medica, hanno ribadito che: ”…il presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario risiede nella scelta, libera e consapevole – salvo i casi di necessità ed incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si sottopone. Tanto perché tutta la normativa prima richiamata mostra di considerare la persona non più destinataria di prestazioni etero determinate, ma soggetto attivo e partecipe dei processi decisionali che la riguardano, e perché appare oramai superata la visione del medico come depositario e detentore di una potestà di curare dovendosi invece inquadrare il rapporto medico paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) in termini di ‘alleanza terapeutica’, che vede entrambi i protagonisti impegnati a collaborare per l’attuazione del diritto alla salute”.

Nonostante questo, i giudici di merito sembrano non aderire a tale lettura, prescrivendo trattamenti psicologici ai genitori con conseguenti provvedimenti incidenti la responsabilità genitoriale laddove uno o entrambi dovesse rifiutarsi di aderirvi o nel caso in cui si dovesse verificare una generica e non meglio precisata “omissione” da parte del genitore inadempiente.

Toccherebbe a questo punto effettuare ulteriori precisazioni. I vari Tribunali che propongono questa tipologia di interventi utilizzano spesso la formula del “suggerimento” piuttosto che della “prescrizione”. Tuttavia, dietro tale indicazione si cela, in realtà, una vera e propria imposizione proprio per la presenza di provvedimenti incidenti la responsabilità genitoriale previsti nel caso in cui il genitore risultasse inadempiente.
In nome e per conto della tutela del figlio, i giudici di merito sembrano superare quanto prescrive la Costituzione italiana delegando ad un improbabile trattamento psicologico la “redenzione” dei due genitori in conflitto. Si tratta di una compressione dei diritti individuali in funzione di quello che, a parere del Giudice, costituisce l’ “interesse” del minore. Il Giudice deflette quindi dalla sfera che gli compete, governata dal principio di legalità, per disporre interventi secondo il principio di beneficità secondo una concezione paternalistica più vicina al vecchio costrutto di “potestà” (il minore come “incapace” da proteggere) e meno a quello di “responsabilità” (Camerini e Sergio, 2013).
Non si hanno, al momento, statistiche ufficiali in grado di sostenere l’efficacia di tali interventi coattivi, senza considerare la presenza di più di una criticità non solo dal punto di vista della deontologia sanitaria, necessariamente rispettosa del principio di autonomia del paziente (rispetto della sua libera e responsabile volontà e dell’espressione del consenso informato al trattamento), ma anche dal punto di vista dei contenuti sanciti dal Codice Deontologico degli psicologi italiani.

Si aggiunga la criticità relativa all’efficacia dei trattamenti sanitari imposti ad un soggetto adulto senza motivazione intrinseca e quella relativa al consenso informato.
Nel primo caso non vi è trattamento sanitario di tipo psicologico che funzioni senza una motivazione (Montesarchio, 1998). La premessa di un percorso di sostegno psicologico e/o psicoterapico è la motivazione del soggetto interessato dettata dalla sua libertà di autodeterminazione e di scelta. Lo psicoterapeuta non è in grado di cambiare le idee e di modificare i distorti convincimenti mediante un’imposizione indotta da un soggetto terzo. Alla base della relazione tra paziente e professionista vi sono l’alleanza, la fiducia, il rispetto reciproco e una condivisione degli obiettivi terapeutici co-costruiti e non prescritti dall’esterno.

Strettamente correlato a questo concetto vi è quello relativo al consenso informato: nessun trattamento sanitario può essere imposto, se non nelle forme di un TSO, senza un valido consenso informato (Fornari, 2015).

Serve una psicoterapia nei casi di alienazione parentale?

Superato per un momento il diniego costituzionale del trattamento sanitario coatto, cerchiamo di comprendere se una psicoterapia possa risultare utile nei casi di alienazione parentale al fine di ripristinare i rapporti deteriorati tra genitore rifiutato e figlio. La psicoterapia per poter essere efficace necessita della motivazione dei pazienti che, nei casi di AP, verrebbe a mancare nel figlio e nel genitore dominante. Quest’ultimo non avrebbe nessuna intenzione di mettersi in discussione per produrre un cambiamento e favorire il ripristino della relazione del figlio con l’ex partner. Si aggiunga che, in talune circostanze, la psicoterapia come intervento suggerito-prescritto sarebbe, invece, auspicabile dal genitore alienante perché riuscirebbe a manipolare tempi e spazi del setting terapeutico ottenendo vantaggi secondari. Ad esempio, potrebbe effettuare ritardi, chiedere rinvii degli incontri, addossare ogni responsabilità della situazione al figlio e/o all’ex partner. Il figlio, invece, specialmente se in età pre-adolescenziale potrebbe opporsi ad ogni tipo di cambiamento proposto dal terapeuta. Potrebbe, inoltre, subire ulteriore condizionamento da parte del genitore alienante, specialmente se ancora collocato presso di lui. L’unico ad essere realmente motivato sarebbe il genitore rifiutato che si troverebbe, ancora una volta, triangolato e reso impotente dalla diade dominante. Dal un punto di vista dello psicoterapeuta, invece, bisognerebbe comprendere quale potrebbe essere l’approccio migliore da adottare in questo genere di casi e quali i suoi limiti deontologici, anche rispetto al consenso informato e al segreto professionale. Potrebbe lo psicoterapeuta decidere autonomamente (art. 6 C.D.) di certificare la non trattabilità della famiglia divisa per assenza di motivazione oppure, semplicemente, perché ritiene che l’approccio psicoterapico non è indicato per quel trattamento? Senza pensare che i pazienti potrebbero essere inviati ad altro collega successivamente al primo incontro. In tutti questi casi come si dovrebbe procedere, lo psicologo dovrebbe avvertire il Tribunale/Servizi Sociali in aperto spregio con il segreto professionale? I soggetti preposti dovrebbero investire un altro ente o altro professionista? Quanto tempo si continuerebbe a perdere? Troppi dubbi e interrogativi che lasciano spazio ad interpretazioni, improvvisazioni e a metodologie non facilmente praticabili in Italia, a cominciare dall’onorario del professionista che dovrebbe essere imposto e a carico dei pazienti i quali non avrebbero libertà nemmeno di scegliere il professionista ritenuto più idoneo.

Altra soluzione prevista è la psicoterapia rivolta solo al figlio. Anche in questo caso esistono significative criticità poiché si ritiene che la psicoterapia possa “far cambiare idee” alle persone, non tenendo in considerazione che il bambino potrebbe, tramite il lavoro terapeutico, convincersi della bontà della sua scelta di rifiutare il genitore e che lo stesso psicoterapeuta sarebbe libero (oppure no?) di non lavorare con il giovanissimo paziente sulle motivazioni del rifiuto e dedicare gli obiettivi terapeutici su altri temi oppure ritenere che il bambino esprima valide motivazioni sottostanti la sua opposizione.

Esperienze in Italia

Nel nostro Paese è vivo il dibattito sugli interventi psicosociali nel casi di alienazione parentale. Una delle soluzioni più diffuse è la prescrizione dei trattamenti sanitari di tipo psicologico che, come descritto, oltre ad essere illegittima, non garantisce risultati efficaci. Si parla molto della figura del c.d. “coordinatore genitoriale” (Carter, 2014), figura sperimentata in qualche Tribunale italiano, ma con scarso successo. Tale figura, infatti, a differenza del curatore speciale soffre della mancanza di una cornice giuridica delineata: egli è nominato dal Tribunale, ma senza acquisire una funzione di pubblico ufficiale il che non gli permette di esercitare alcun potere sulla famiglia divisa, se non quello di relazionare al Giudice o ai Servizi Sociali l’evolversi della situazione familiare. Non si comprende se egli agisca dentro il processo o al di fuori di esso, se i dati che tratta siano coperti dal segreto o ostensibili, se si relazioni ai genitori, al Giudice o ad entrambi. La criticità più significativa sembra essere quella relativa alle sue competenze: quale figura professionale dovrebbe essere incaricata di tale ruolo tra psicologi, medici, assistenti sociali, educatori, psicopedagogisti? In base alla professione scelta, potrebbe cambiare l’impostazione metodologica del CG, la sua funzione, gli obiettivi e probabilmente anche i risultati in termini di efficacia.
Siamo convinti che nei casi di alienazione parentale servano specifici interventi da parte dell’Autorità Giudiziaria con i mezzi messi a disposizione dalle leggi già in vigore.

Il primo intervento da prendere in considerazione dovrebbe corrispondere al c.d. “inversione di collocamento”. È la soluzione più immediata e fattibile in talune circostanze. Accertata l’alienazione parentale tramite CTU, il Giudice stabilisce che il minore venga immediatamente trasferito presso l’abitazione del genitore alienato. Tuttavia, questo intervento è possibile solo nei casi in cui l’AP non sia ormai in uno stato avanzato e compromesso, altrimenti diventerebbe difficile poter convincere un ragazzino, specie se in età preadolescenziale, a cambiare abitazione. Infatti, la prima variabile da tenere in considerazione in tutte le ipotesi di intervento è l’età del minore e successivamente il grado di rifiuto dimostrato nei confronti del genitore alienato. Disporre l’inversione di collocamento ad una età di 13-14 anni potrebbe risultare controproducente rispetto ad una età intorno agli 8 anni.

Il secondo intervento è il trasferimento temporaneo del figlio in una struttura protetta per minori. E’ l’intervento più energico, quello più estremo che implicitamente considera entrambi i genitori non adeguati a gestire il figlio. E’ la soluzione ricorrente nei casi molto gravi di alienazione parentale, quando il legame simbiotico genitore favorito-figlio deve essere scisso a causa delle conseguenze psicologiche nefaste sul minore e sul legame affettivo con l’altro genitore.
In entrambi i casi, inversione di collocamento e struttura protetta per minori, possono essere attivati contestualmente i c.d. “incontri in spezio neutro” tra figlio ed entrambi i genitori: con il genitore rifiutato al fine di cercare di ripristinare il legame interrotto, con il genitore favorito con il fine di ristrutturare il loro rapporto fusionale.

Ogni decisione dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di sanzioni per il genitore dominante, ai sensi dell’art. 709-ter e 96 c.p.c., in grado di svolgere una funzione deterrente ove si verificassero inadempienze o comportamenti ostacolanti la frequentazione tra figlio e genitore rifiutato.
Solitamente la gestione del caso è affidata ai Servizi Sociali che hanno l’arduo compito di sobbarcarsi l’enorme carico lavorativo di decine e decine di casi, oltre a quelli che comprendono la gestione dell’alienazione parentale. Tuttavia, i Servizi Sociali non sono sempre attrezzati attraverso metodologie scientifiche e personale specificamente qualificato, per cui può capitare che un caso di AP venga trattato alla stregua di un “normale” altro caso di conflittualità familiare.

Interventi statunitensi

Proviamo ora a sintetizzare alcuni interventi statunitensi nei casi di alienazione parentale.
Warshak nel 2010 propose il noto Family Bridges che prevede la residenzialità di 4 giorni del figlio e del genitore rifiutato in uno spazio neutro insieme ad un gruppo di esperti. In alcuni casi può essere il Tribunale (Court) ad ordinare il Family Bridges, in altri casi esso si limita a delegare il genitore rifiutato ad intraprendere qualsiasi iniziativa ritenuta più idonea al fine di recuperare il rapporto con il figlio. In ogni caso, al programma non può avere accesso il genitore a cui è stato imposto di partecipare contro la sua volontà. Presupposto fondamentale è la libera scelta di partecipare volontariamente al programma. I genitori, invece, possono decidere di far partecipare i figli al programma contro la loro volontà. Pensiamo a quei casi più complessi di alienazione parentale in cui il figlio mantiene un rapporto simbiotico con il genitore favorito non avendo quindi il benché interesse a riallacciare i rapporti con l’altro genitore. L’accesso al Family Bridges è quindi consentito al figlio contro la sua volontà, ma una volta iniziato il programma egli è informato sulla possibilità di interromperlo. E’ un programma privato e a pagamento. Non vengono accettati casi in cui il Tribunale ordina al genitore non partecipante (dominante-alienante) di pagare le spese per chi vi partecipa (genitore rifiutato e figlio).
– Il Family Reunification in a Forensic Setting non è una vera e propria psicoterapia, non essendo il focus dell’intervento la relazione tra terapeuta e il bambino ma tra quest’ultimo e i genitori. L’obiettivo del trattamento è quello di “alterare” le dinamiche disfunzionali tra genitori e figlio. Gli autori precisano che il Tribunale può disporre che: 1) l’agenzia può provvedere al trattamento per il genitore rifiutato e il figlio; 2) entrambi i genitori e il figlio devono cooperare con le procedure dei terapeuti preposti al trattamento; 3) i genitori devono pagare in solido il trattamento; 4) il Tribunale deve acquisire periodiche relazioni dall’agenzia preposta al trattamento prevedendo che gli psicologi siano considerati come testimoni.
– L’Overcoming Barriers Family Camp di Sullivan, Ward e Deutsch prevede la presa in carico di tutti i membri della famiglia divisa prevedendo una permanenza in un campeggio. Oltre alle attività di campeggio tradizionali come lo yoga, le arti e l’artigianato, gli escursionisti e i fuochi d’artificio, le famiglie partecipano ogni giorno a programmi speciali per bambini e adulti. Al termine dell’esperienza, i componenti della famiglia firmano il Summary of Interventions and Agreements che serve anche al Tribunale (Court) per comprendere i progressi effettuati.

Conclusioni

Alla luce delle valutazioni effettuate, a parere degli scriventi vi è necessità di specifici programmi di trattamento sanitario di tipo psicologico offerti da agenzie esterne specializzate nella gestione di questo genere di casi. La criticità principale rimane sempre la modalità con cui la famiglia divisa viene invitata a partecipare a tali trattamenti, se questa possa esser coatta o debba essere volontaria e se spetti al Tribunale occuparsi del “come” oltre del “cosa” fare.

Allorquando il diritto si propone di agire in parallelo con le scienze psicologiche, occorre che esista una coerenza tra ciò che ci si prefigge e i limiti (e le regole) dei mezzi adottati per raggiungere quello scopo.

Qualora tale coerenza non sia dimostrabile, è preferibile che il diritto si orienti nel senso di un’azione appunto giudicante, disponendo eventualmente con la dovuta tempestività sanzioni civili e/o amministrative e/o penali nei confronti del genitore inadempiente, senza artificiose sovrapposizioni di responsabilità e senza cercare di alterare, presumendo di guidarla, la ineludibile e necessaria indeterminatezza delle scienze e del sapere in questo ambito.

Bibliografia
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Giovanni Camerini - Marco Pingitore
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