Il reato di stalking, da quando ha fatto il suo ingresso nel nostro ordinamento giuridico, con un suo espresso riconoscimento, integrando quei comportamenti ovvero quell’insieme di azioni dal carattere persecutorio che un soggetto mette in atto in modo continuativo nei confronti di altro soggetto, generando stati di ansia paura o di pericolo per la propria incolumità, assume una particolare connotazione quando vede come parti in causa due ex partner. Sempre più spesso, purtroppo, assistiamo ad episodi in cui il reato si consuma all’interno di una ex coppia attraverso continue telefonate, minacce, messaggi, pedinamenti, continui contatti anche a mezzo social tali da minare alla stabilità emotiva del soggetto preso di mira, al punto tale da spingerlo a cambiare le proprie abitudini di vita. La motivazione è che l’amore, nelle sue diverse sfaccettature, tende, una volta che è finito il rapporto, ad assumere forme che talvolta sfuggono al controllo, incanalandosi in altri sentimenti difficili da gestire. Tuttavia l’integrità fisica e psichica della persona trova una sua protezione proprio attraverso la punizione di colui/colei che pone in pericolo tale stato di integrità, indipendentemente dalle motivazioni.
Tale preambolo risulta fondamentale per riuscire a capire una recente sentenza della Cassazione, la n. 53630/2018, con la quale la terza sezione Penale ha respinto il ricorso di un uomo condannato già in primo e secondo grado per stalking, rigettando le motivazioni alla base del ricorso stesso.
La difesa dell’uomo argomentava che accanto agli atti “persecutori” potevano essere ravvisate anche richieste di perdono, spesso accettate dalla ex fidanzata che a sua volta era stata artefice di molestie a danno del ricorrente: l’alternarsi di fasi di attacco e difesa avrebbe dovuto annullare la portata e l’importanza di quei comportamenti che avrebbero costituito la fattispecie concreta del reato di stalking, ed anzi una già esistente sentenza di statuizione di responsabilità per molestie della donna avrebbe dovuto porre nel nulla la credibilità del racconto di quest’ultima. Ma la Suprema Corte non è d’accordo. I fatti narrati nel caso di specie dalla vittima sono stati ritenuti credibili e con un’insita capacità di chiara raffigurazione degli atti compiuti dall’uomo e dello stato di ansia e paura che questi hanno generato nella donna, comportamenti che hanno determinato un cambiamento di abitudini di vita. Il reato pertanto si è consumato, ininfluente a tal riguardo la richiesta successiva di perdono ed anche l’eventuale concessione dello stesso da parte della donna che all’epoca dei fatti è stata vittima del reato.
Irrilevanti, dunque, anche i dettagli messi in luce sempre dalla difesa del ricorrente, quali ad esempio la circostanza che la donna, dopo la chiusura del rapporto, ed all’epoca degli insulti e delle denunciate violenze fisiche e verbali, avesse continuato a frequentare il gruppo di amici in cui era presente anche l’ex, ciò che conta è che tali violenze ed atti persecutori vi siano stati e che a tali comportamenti sia seguito un dimostrato stato di ansia di timore che abbia avuto come conseguenza un accertato cambiamento delle abitudini di vita della donna, di certo persona offesa in tutta questa incresciosa situazione.